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Per l’indipendenza energetica comunitaria c’è bisogno di una vera Unione


Siamo ad un bivio tra Unione Europea dell’energia e deindustrializzazione. Ma nella politica energetica ogni Paese Membro fa per sè.


È passato ormai un anno (24 febbraio 2022) dall’inizio del conflitto russo-ucraino. E i conti con l’energia che manca e che bisogna produrre diversificando, compongono una lista infinita. 

Finora, di fronte alla crisi energetica, la Commissione ha coordinato le azioni dei Paesi Membri volte a ridurre i consumi e riempire i magazzini di energia. 

Il coordinamento stabilisce standard minimi e obiettivi comuni per raggiungere l’indipendenza energetica comunitaria, ma ognuno fa per sé. 

Passato e presente all’insegna della continuità

Circa un anno fa, cercando di analizzare le cause (e le conseguenze) della lunga crisi del gas, abbiamo disquisito sul fatto che questa “congiuntura” ha messo in luce l’incapacità di attuare serie politiche di lungo periodo, che sarebbero dovute consistere – fra l’altro – in investimenti volti a diversificare le fonti di approvvigionamento energetico, sottolineando come allora (ma anche adesso, del resto) non è stata la prima volta che abbiamo dovuto:

  • affrontare una crisi energetica;
  • analizzarne le cause (e le scusanti a latere);
  • far fronte alle conseguenze (geopolitiche ed economiche);
  • ipotizzare delle soluzioni (non tutte praticabili).

Sullo sfondo, il processo di decarbonizzazione, più volte evocato (ma mai praticato), in un contesto culturale da rifondare…


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Le radici del futuro: breve sintesi di un passato idilliaco…

Nel corso degli anni si sono susseguite, ai diversi livelli, fior di strategie per l’energia e di normative per garantirne la sicurezza dell’approvvigionamento:

  • il 2015 è stato l’anno della Strategia dell’Unione dell’energia, con lo scopo di integrare la politica energetica e la politica climatica dell’UE per il raggiungimento degli obiettivi successivi al 2020.
    Nell’interessante riassunto, che si può leggere nelle pagine del sito della Camera, si legge che (già allora) “l’Unione europea “si è da tempo candidata a svolgere un ruolo di leader a livello mondiale nella transizione verso l’energia pulita e nella lotta ai cambiamenti climatici […] nel suo insieme ha continuato a compiere buoni progressi in termini di riduzioni del consumo di energia ed è sulla buona strada per raggiungere gli obiettivi al 2020 in materia di efficienza energetica […]” ed era intenzionata ad adottare “misure volte a garantire la sicurezza dell’approvvigionamento di gas per far fronte ad un’eventuale carenza (shortage) di gas causata da interruzioni nelle forniture o da una domanda straordinariamente elevata”;
  • nel 2017 tali (ultime) misure sono state infine adottate, con l’augurio di premere l’acceleratore sulla solidarietà e sul coordinamento nella risposta alle crisi degli approvvigionamenti, sia in termini di prevenzione che di reazione alle interruzioni concrete delle forniture (in tale ottica, è stata introdotta una stretta cooperazione nell’elaborazione delle valutazioni regionali dei rischi, oltre ai piani d’azione preventivi e ai piani d’emergenza), per raggiungere se non l’indipendenza energetica, quanto meno qualcosa che le assomigliasse, o ne costituisse il presupposto.

…solo a parole

Ma nonostante queste belle parole, e la professione di fede, nel 2020, cinque anni dopo la “candidatura avvenuta già da tempo”, il Consiglio europeo – nel sottolineare che l’Europa è sia produttore che importatore di energia – sciorinava dati non proprio entusiasmanti circa la provenienza dell’energia che utilizziamo.


Fra un proclama e l’altro, nel 2022 la situazione è quella riassunta un anno fa, cui abbiamo fatto riferimento all’inizio di questo contributo: mancanza di prospettive.

E così, fra un aiuto economico e l’altro (aiuti che, pur sacrosanti, sono comunque figli dell’emergenza e della tendenza a procrastinare l’implementazione di soluzioni, decantate in strategie più o meno attuabili), fra la diversificazione degli approvvigionamenti e l’aumento (accaparramento?) degli stoccaggi, in una corsa contro il tempo per scongiurare quanto più possibile l’ulteriore aumento dei prezzi (di turno…), ben poco è stato fatto in materia di riduzione dei consumi, e ben poco di coordinato e solidale è stato fatto fra gli Stati dell’«Unione», ognuno dei quali gestisce le problematiche energetiche in ordine sparso…

La solidarietà, l’unione e un senso

La Germania, ad esempio, ha raggiunto risultati meno brillanti, rispetto ad altri Stati membri, nella diversificazione delle fonti energetiche – anche perché partiva da una maggiore dipendenza dalla Russia – ma è stata molto più ligia nella riduzione dei consumi.
Il nostro Paese, invece, a fronte dell’impennata ad un certo punto inarrestabile del prezzo del gas, ha fin da subito spinto per l’introduzione di un tetto europeo al prezzo dell’energia; posizione contestata dal governo tedesco (che ha deciso di investire, potendoselo permettere,  200 miliardi in 3 anni per combattere il caro energia), ungherese ed austriaco (scettici, al riguardo), mentre la Danimarca, i Paesi Bassi e gli altri governi nordici non sembrano intenzionati ad alterare il funzionamento del mercato.
Senza contare i Paesi che vorrebbero estendere il price cap a tutto il gas importato in Europa tramite oleodotti.
Le differenti posizioni sono (più che) potenzialmente in grado di condizionare il mercato unico – che per funzionare deve avere delle regole a «senso unico»: se le imprese tedesche pagassero l’energia molto meno di quelle degli altri Paesi, la competizione non sarebbe più equa, annessi e connessi – e minare il senso di appartenenza.

Un’appartenenza che, di questi tempi, sembra far più senso che avere un senso.


Un accordo per l’indipendenza energetica? Prove di coesione e la “prova del boomerang”

A metà dicembre 2022 è stata raggiunta l’intesa per aggiornare i piani di ripresa e resilienza con capitoli aggiuntivi dedicati a centrare gli obiettivi del REPowerEU: “i negoziatori del Consiglio e del Parlamento europeo – si legge sul sito di quest’ultimo – hanno raggiunto nella notte un accordo provvisorio sul REPowerEU, per dare modo agli Stati membri di aggiungere un nuovo capitolo dedicato a centrare gli obiettivi di indipendenza energetica (ad esempio, aumentare l’efficienza energetica negli edifici e nelle infrastrutture energetiche critiche o aumentare la produzione di biometano sostenibile) ai loro piani nazionali di ripresa e resilienza (Pnrr) varati nel quadro del fondo di ripresa Next Generation Eu”.

Il piano verrà finanziato dalla possibilità concessa ai governi (facoltativa) di dirottare fino a 26,9 miliardi di euro dai fondi di coesione e fino a 7,5 miliardi di euro dalla Politica agricola comune.

Pochi giorni dopo, è stata trovata l’intesa temporanea (con l’astensione di Olanda e Austria) per fissare un tetto massimo ai prezzi del gas naturale a 180 euro per megawattora: il meccanismo dovrebbe entrare in vigore solo in questi giorni (inizio febbraio 2023):
Ma c’è chi teme che tale misura non sia in grado di abbassare il prezzo del gas, anche per le condizioni, al cui avverarsi è sottoposta la sua entrata in vigore, senza contare il fatto che prima del 15 febbraio 2023 l’Agenzia dei regolatori europei (Acer) e l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (Esma) dovranno stilare un’analisi costi-benefici, e se i primi supereranno i secondi il price cap verrà bloccato ancora prima di partire.

L’agenzia Bloomberg sostiene che “la decisione dell’Ue di porre un tetto ai prezzi del gas naturale “rischia di rendere più difficoltoso l’approvvigionamento nella regione e di inasprire la crisi energetica”, favorendo al contempo le esportazioni verso la Cina e l’Asia se i prezzi di acquisto risulteranno vantaggiosi”. Insomma, il price cap UE potrebbe rivelarsi una sorta di boomerang in grado di destabilizzare i mercati internazionali.

Il federalismo energetico, la storia dei “se” e l’ardua sentenza

In questo scenario frammentato, con decisioni che lasciano agli Stati membri la libertà di prendere le decisioni (potenzialmente discordanti, in funzione della facoltà, esercitata e meno), la soluzione federale sembra poter essere in grado di garantire un adeguato approvvigionamento energetico a un costo che non metta l’economia a rischio di deindustrializzazione, nella sua competizione globale con gli Stati Uniti e l’Asia.
Se l’UE avesse un governo federale, responsabile anche della politica energetica, infatti:
  • avrebbe già disaccoppiato il costo dell’energia da quello del gas, ed identificato un parametro diverso dal mercato speculativo di Amsterdam;
  • farebbe acquisti congiunti (come avvenuto per i vaccini), senza metter in concorrenza i Paesi europei fra di loro in una corsa all’accaparramento che creerebbe solo aumento dei costi;
  • i minori costi potrebbero essere reinvestiti in infrastrutture, in grado di imporre un cambio di direzione, nelle politiche (e, a monte, nelle strategie che le dovrebbero guidare) e nella cultura politica e sociale.
Ma con i «se» non si fa la storia: si narra una favola che si vorrebbe potesse diventare realtà, superando i diversi sovranismi che non solo avvelenano la nostra esistenza, ma ci stanno portando verso una deindustrializzazione.
Tertium non datur: indipendenza energetica o deindustrializzazione?
Nella speranza che ci si prenda adesso l’onere di pronunciare l’ardua sentenza.
Perché la risposta, se lasciata ai posteri, sappiamo già qual è.

fonte: teknoring